Siena (giovedì, 9 ottobre 2025) — L’accordo Israele-Hamas: un fragile ponte tra guerra e tregua.
di Valeria Russo
La notizia è arrivata nella notte: Israele e Hamas hanno firmato l’accordo per la prima fase del piano promosso dagli Stati Uniti, mediato con l’aiuto di Egitto, Qatar e Turchia.  Si tratta di un passo che molti attendevano come una tregua possibile, ma che altri vedono come una tregua precaria, sospesa tra speranza e scetticismo.
Cosa prevede l’accordo
La prima fase include un cessate il fuoco da attivarsi 24 ore dopo la ratifica israeliana.  Israele accetterebbe un ritiro parziale delle forze, pur mantenendo il controllo di circa il 53% della Striscia di Gaza.  In cambio, Hamas libererebbe tutti gli ostaggi ancora vivi (si parla di 20 su 48) entro 72 ore, e Israele rilascerebbe centinaia di prigionieri palestinesi.  Il piano include anche l’apertura di corridoi umanitari quotidiani (circa 400 camion di aiuti nei primi giorni) e il ritorno degli sfollati verso le zone meridionali verso nord. 
Tuttavia, l’applicazione dell’accordo è vincolata a due condizioni: l’approvazione da parte del governo israeliano e la fiducia che le parti rispetteranno le misure concordate. 
Chi guadagna e chi rischia
C’è chi considera questo accordo come una vittoria diplomatica per entrambe le parti: per Israele, la liberazione degli ostaggi è una concessione enorme; per Hamas, la legittimazione internazionale e la visibilità che derivano dal negoziato.  Tuttavia, dietro la facciata della tregua si profilano molte incognite.
• Netanyahu e il governo israeliano: alcuni partner della coalizione hanno già annunciato voto contrario all’accordo, soprattutto quelli dell’estrema destra che temono conseguenze sul fronte della sicurezza. 
• Hamas: una parte del movimento ha accettato l’intesa come un modo per alleggerire il peso della guerra, ma rimane la questione del disarmo, elemento che non è stato risolto in questa fase. 
• La popolazione civile di Gaza: per loro, la tregua significa aria, acqua, medicine, ma anche il rischio che la pace rimanga un miraggio se le condizioni sul campo non cambieranno.
Un equilibrio precario
Questa fase dell’accordo ha qualcosa di rituale — un atto simbolico che deve ancora dimostrare sostanza. Le guerre raramente finiscono in un giorno: si avvolgono in tregue, sconfitte, reazioni e contrattacchi. Un passo avanti può alimentare illusioni, ma senza garanzie concrete rischia di essere un’illusione costosa.
L’accordo, in realtà, prova a “tirare il fiato” in un conflitto che ha già consumato migliaia di vite. Ma non riconfigura né l’assetto politico della Striscia né la strategia israeliana sul controllo. Non affronta – o lo fa con troppa cautela – il nodo della governance futura di Gaza, dello smantellamento delle milizie, della ricostruzione e dell’enorme distruzione materiale.
Il giudizio e la posta in gioco
Se l’accordo regge, potrà aprire uno spiraglio di tregua duratura. Ma se dovesse fallire, il contraccolpo sarà violento. Il rischio maggiore è che, più che un cessate il fuoco, diventi una pausa prima di nuovi scontri.
L’Europa, gli Stati Uniti e i paesi mediorientali hanno accolto con favore la notizia, augurandosi che questo primo passo non sia solo un sipario teatrale, ma un segnale di cambiamento. 
La domanda che rimane è: hanno trovato la pace, o solo un modo nuovo di continuare la guerra? In Medio Oriente, non bisogna mai dare per scontato che un accordo firmato sia una pace realizzata.
Last modified: Ottobre 9, 2025

