Siena — C’è qualcosa di profondamente umano nel tentativo di capire le macchine, di addestrarle a somigliarci. Claudio D’Attis, regista salentino dall’occhio inquieto e curioso, l’ha raccontato con la grazia di chi sa che la tecnologia, a modo suo, è un’estensione delle nostre paure.
di Valeria Russo
Con Holy B3, premiato con una menzione speciale al Terra di Siena International Film Festival, ha costruito una parabola moderna sul confine incerto tra l’anima e il codice.
Nel suo racconto, il futuro ha il volto della fede e la voce della coscienza. Non quella artificiale dei computer, ma quella che sbaglia, che esita, che prega. In un mondo dove anche la salvezza può essere processata da un algoritmo, D’Attis intreccia teologia e scienza, compassione e controllo, come due fili dello stesso paradosso.
L’idea, nata dalla mente della tedesca Heidi Bernauer-Münz, diventa nelle mani di D’Attis e Roberto Basile una storia sospesa tra due umanità: una suora italiana che crede nel perdono, un prete tedesco convinto che solo la punizione redima. In mezzo, un sindaco che tenta di riportare ordine tra fede, politica e intelligenze troppo umane per essere solo artificiali.
La serie non predica, suggerisce. Non spiega, interroga. Dove finisce la libertà, quando anche la grazia è scritta in un codice binario? È possibile che una macchina possa capire il peccato, o il rimorso? D’Attis non offre risposte, ma lascia che la regia diventi preghiera laica, fatta di silenzi, sguardi, luci che sembrano confessioni.
Il Terra di Siena Film Festival ha colto la sostanza: Holy B3 è cinema che non consola, ma accompagna. Parla di noi, della nostra ostinata voglia di inventare un dio nuovo ogni volta che ne costruiamo uno vecchio. E quando le luci in sala si accendono, resta un pensiero sottile: forse l’intelligenza artificiale non è che il nostro specchio, e in fondo continuiamo a usarla per cercare ciò che ancora non abbiamo trovato dentro di noi.
Last modified: Ottobre 26, 2025

