Siena (venerdì, 10 ottobre 2025) — Ci sono numeri che non urlano ma scavano. Quelli diffusi dalla Fondazione Gimbe raccontano un’Italia che, dietro il linguaggio burocratico dei bilanci, sta lasciando sfilacciare uno dei pochi pezzi di welfare ancora in piedi: la sanità pubblica.
di Valeria Russo
Non è un crollo fragoroso, non c’è lo spettacolo del disastro. È piuttosto una lenta emorragia, un definanziamento silenzioso che si traveste da equilibrio contabile. Le cifre restano simili, ma i costi aumentano, e così ogni anno il valore reale delle risorse si assottiglia, come una coperta che non copre più nessuno.
In Toscana, regione abituata a difendere con orgoglio un sistema sanitario pubblico e di qualità, la sensazione è quella di un accerchiamento progressivo. Si resiste, ma a fatica. Gli ospedali fanno i conti con carenze di personale, le liste d’attesa si allungano, i medici di base diventano una specie in via d’estinzione. Il problema non è solo di numeri, ma di visione. Si continua a pensare alla sanità come a una spesa, non come a un investimento. E così, mentre i bilanci dello Stato cercano di quadrare, la salute dei cittadini rischia di andare in rosso.
Il fondo sanitario nazionale, che dovrebbe essere lo strumento per garantire parità di accesso alle cure da Aosta a Ragusa, distribuisce le risorse con criteri ormai stanchi, figli di un’Italia che non esiste più. Le regioni più virtuose vengono spesso penalizzate da un sistema che ignora l’invecchiamento della popolazione, le nuove povertà, le fragilità sociali. È come se la macchina della sanità continuasse a correre su una mappa vecchia, senza accorgersi che le strade nel frattempo sono cambiate.
C’è poi il tema, drammatico e sottovalutato, del personale. I medici e gli infermieri non sono numeri da tabella Excel, ma esseri umani che reggono in piedi il sistema con turni massacranti e stipendi che non corrispondono alla fatica. Le uscite non vengono compensate da nuove assunzioni, e chi resta lavora il doppio, con la sensazione di non farcela più. In questo scenario, parlare di “universalismo” suona sempre più come un esercizio retorico.
La Toscana, come altre regioni, chiede una correzione di rotta. Non solo più fondi, ma una redistribuzione più equa. Perché non tutte le malattie costano allo stesso modo, e non tutte le regioni hanno la stessa età media, gli stessi problemi ambientali, la stessa densità di popolazione. Un criterio unico di riparto, oggi, rischia di essere ingiusto proprio dove vorrebbe essere imparziale.
Il punto, in fondo, è semplice: un Paese che smette di curare la propria sanità pubblica smette di curare se stesso. Il taglio non è solo economico, ma simbolico. Si taglia l’idea che lo Stato sia un luogo di protezione, si taglia il principio che la salute sia un diritto e non un privilegio. È così che un giorno, tra qualche finanziaria e un’altra, ci si accorge che il sistema non c’è più. E nessun numero potrà spiegare come sia successo.
Last modified: Ottobre 10, 2025

