Siena — Ci sono argomenti che la scuola sfiora appena, come se fossero troppo ingombranti per entrare tra un’interrogazione e una campanella. La morte, per esempio.
di Valeria Russo
Se ne parla raramente, e quasi mai con i ragazzi, come se non la riguardasse. Eppure, ieri mattina a Siena, in una sala dei Mutilati piena fino all’ultimo banco, un centinaio di studenti ha ascoltato, domandato, riflettuto su di lei, la grande assente di ogni discorso quotidiano.
L’incontro, organizzato da So Crem Siena – la società che da anni si occupa di cremazione e cultura del fine vita – aveva un titolo che già da solo conteneva un piccolo romanzo: “Da Accabadora… ai social”. Dentro, tutto un mondo. Dalla figura arcaica della donna che accompagnava alla morte, nelle comunità sarde di un tempo, fino ai profili Instagram dei defunti che restano accesi, come candele digitali.
Il professor Pietro Cataldi ha cominciato da lì, dal libro di Michela Murgia che racconta la “buona morte” come atto d’amore, non di disperazione. Un rito che apparteneva a un tempo in cui la morte era un evento collettivo, condiviso, sacro. Poi, lentamente, la società ha cominciato a spostarla fuori casa, a chiuderla negli ospedali, a renderla invisibile. Oggi invece è tornata visibile, ma in modo strano, mediato, filtrato: fotografata, ricordata, pubblicata, commentata.
È qui che è intervenuto Davide Sisto, filosofo e tanatologo, che ha mostrato ai ragazzi il volto nuovo del lutto: quello che abita nei social. Le pagine Facebook che diventano luoghi di commemorazione, gli account Instagram che restano aperti come altari virtuali, le chat che si riempiono di messaggi a chi non c’è più. Una comunità di vivi che continua a parlare con i morti, non per evocazione ma per connessione.
Ci si è chiesti se tutto questo sia una forma di consolazione o di smarrimento. Perché se da una parte i social permettono di condividere il dolore, di renderlo collettivo come un tempo, dall’altra rischiano di trasformare la memoria in spettacolo. E mentre si discuteva di questo, è arrivata sul tavolo la questione più inquietante di tutte: l’intelligenza artificiale.
Non quella che scrive o disegna, ma quella che “riporta in vita” i defunti. Che ricostruisce la voce, i messaggi, le abitudini. Che crea avatar con cui si può continuare a parlare, come se il confine tra presenza e assenza non esistesse più. Una tecnologia che promette conforto, ma che forse moltiplica il dolore, perché non lascia andare.
Gli studenti hanno ascoltato, qualcuno ha chiesto se non sia pericoloso affezionarsi a un fantasma digitale. Altri hanno raccontato esperienze personali, pagine social di amici scomparsi che ancora ricevono cuori e commenti. È venuta fuori una generazione che non teme la morte, ma teme il silenzio.
Alla fine dell’incontro, in quella sala antica, sembrava che il tempo avesse fatto un giro completo: dai riti della Accabadora ai post su TikTok, l’uomo resta lo stesso, con il suo bisogno di ricordare e di dare un senso alla perdita. Solo che adesso il ricordo passa per una connessione Wi-Fi.
E forse, ha detto qualcuno tra sé e sé uscendo, anche i morti oggi hanno bisogno della password giusta per continuare a farsi trovare.
Last modified: Novembre 1, 2025

