Siena — Per tre giorni, al Liceo Artistico “Duccio di Buoninsegna” di Siena, si è respirata un’aria insolita, densa come quella che precede un temporale e limpida come il cielo subito dopo.
di Valeria Russo
Non c’era la solita campanella, ma un brusio costante di voci, discussioni, idee che si rincorrevano tra i corridoi. Gli studenti hanno occupato la scuola e, come spesso accade quando i ragazzi scelgono di non limitarsi a subire, qualcuno ha deciso di ascoltarli e qualcun altro di accusarli.
Il loro comunicato, uscito dopo tre giorni, ha il tono di chi ha pensato bene a quello che fa. Non parla di ribellione cieca, ma di consapevolezza. I ragazzi spiegano che la loro occupazione non è una pausa dallo studio, ma una forma diversa di apprendimento: quella che nasce dal confronto, non dal programma ministeriale.
Tra le righe, si legge un doppio sguardo: verso il mondo e verso se stessi. Parlano della Palestina, dove il diritto allo studio è spesso un miraggio, e dell’Italia, dove quel diritto si consuma lentamente sotto il peso dei tagli e dell’indifferenza. Collegano le due realtà con un filo sottile ma resistente: la convinzione che l’istruzione sia un bene collettivo, non una concessione.
Durante l’occupazione, raccontano, la scuola è diventata ciò che dovrebbe sempre essere: un laboratorio di libertà. Le aule si sono aperte a dibattiti, lezioni autogestite, confronti sull’educazione, i diritti, il lavoro, la pace. Non sono mancati i momenti leggeri, quelli che servono a ricordare che anche il gioco può essere politico quando nasce da una comunità che si sente viva.
Non negano le difficoltà: organizzarsi non è semplice, gestire un gruppo richiede la stessa disciplina che serve per un’opera d’arte. Ma la loro idea di scuola è chiara: meno gerarchica, più giusta, più capace di accogliere le differenze. Vogliono una scuola che ascolti invece di misurare, che insegni a pensare invece di addestrare.
Anche sul fronte del voto, quello richiesto per decidere se continuare o meno l’occupazione, gli studenti contestano una logica burocratica che somiglia troppo a quella degli adulti: il voto degli assenti considerato come un “no”, il poco tempo per organizzarsi, la sensazione che la partecipazione fosse un pretesto più che un invito.
In fondo, la loro protesta non è contro qualcuno, ma contro un modo di stare al mondo che esclude la voce dei più giovani. Per questo si danno appuntamento ancora una volta, in assemblea, per discutere insieme, per decidere insieme, per imparare insieme.
E forse è proprio lì, tra un tavolo di legno e un foglio scarabocchiato, che si nasconde la lezione più importante: che l’autonomia non si insegna, si pratica.
Last modified: Ottobre 31, 2025

