Siena — Se n’è andato in punta di piedi, come fanno quelli che non amano i riflettori ma finiscono per conquistarli lo stesso. Carlo Caroni aveva ottantun anni e un sorriso che, a Sinalunga, conoscevano tutti.
di Valeria Russo
Di lui si diceva che fosse “l’allenatore gentiluomo”, e non era una formula retorica: in un mondo abituato agli urlatori da panchina, Caroni aveva la calma di chi sa che la partita più importante non è quella sul campo, ma quella dentro le persone.
Lo si vedeva spesso, d’estate, seduto al bar del paese con il giornale sportivo piegato a metà e la tazzina vuota da un pezzo. Non cercava l’attenzione, ma intorno a lui si formava sempre un piccolo cerchio di voci, perché era uno di quelli che sanno ascoltare. Parlava poco, sorrideva spesso, e quando diceva qualcosa era per insegnare senza farsi maestro.
Nel calcio toscano il suo nome correva veloce come una punizione ben tirata: Sinalunghese, Foiano, Sansovino, Montevarchi, Poggibonsi, Sangiovannese. Ogni squadra lasciava in lui un segno, e lui lasciava in ogni squadra un modo diverso di stare insieme. Otto promozioni in trentacinque anni — un record, certo — ma chi l’ha conosciuto dice che il suo vero trofeo era la stima dei ragazzi, dei colleghi, perfino degli avversari.
Aveva iniziato presto, a venticinque anni, su un campo di terra battuta, con palloni sgonfi e scarpe che oggi sembrerebbero archeologia. Da allora non si era più fermato. A Coverciano aveva preso il diploma da allenatore professionista, ma la sua vera scuola era stata la panchina: umida, scomoda, ma piena di storie. Diceva sempre che un allenatore deve conoscere prima gli uomini, poi i giocatori.
Nel 1984 aveva portato il Montevarchi alla vittoria in Coppa Italia di Serie D, un anno che per lui restò inciso nella memoria più di tanti altri. “Fu un miracolo di gruppo”, raccontava. Non c’erano sponsor, né televisioni, solo il pallone e un’idea di squadra che oggi sembra quasi romantica.
Quando l’amministrazione comunale gli consegnò il riconoscimento alla carriera, lui si schermì, come chi si sente fuori posto di fronte alle cerimonie. Disse che il calcio, quello vero, resta un gioco. Che bisognerebbe praticarlo con passione e lealtà, e che se poi diventa un lavoro tanto meglio, ma non bisogna mai dimenticare il divertimento. Era un modo elegante per dire che la vittoria non è tutto, ma non era un discorso da perdente. Era il pensiero di un uomo che aveva vinto spesso, ma senza mai smettere di essere gentile.
Chi lo ha salutato per l’ultima volta nella chiesa di San Pietro ad Mensulas, a Sinalunga, lo ha fatto con la sensazione che se ne andasse un pezzo di un certo modo di vivere lo sport. Un modo che non aveva bisogno di slogan né di social network per essere autentico.
Caroni aveva il passo discreto dei signori d’altri tempi, e forse è per questo che mancherà così tanto: perché era uno che sapeva stare al suo posto, e proprio per questo sapeva farsi ricordare.
Last modified: Ottobre 28, 2025

