Italia (mercoledì, 23 luglio 2025) — Le ragazze escono, e la palla resta lì.
Rotola piano, come se sapesse che non è il momento di festeggiare.
Perdere non è una colpa, ma ci sono sconfitte che fanno rumore anche senza applausi.
Quella agli Europei è una di quelle.
di Valeria Russo
In campo si è vista la fatica. Le corse che non bastano. Le idee che arrivano in ritardo.
Ma si è visto anche qualcos’altro: una squadra che prova a esserci, anche se ancora non riesce del tutto a diventare se stessa.
C’è una distanza che non è solo tecnica. È fatta di aspettative sbagliate, discorsi frettolosi, promesse non mantenute. Bastano novanta minuti andati storti per cancellare mesi di passi avanti. Finché vanno avanti, si applaude. Appena cadono, si leva il tappeto e si finge che sotto non ci fosse niente.
Se vincono, fanno notizia. Se perdono, spariscono. Come se il calcio femminile fosse un prestito, non un diritto. Come se l’errore cancellasse tutto il resto.
E invece no. La sconfitta di oggi ha lo stesso peso di tutte le altre. Brucia, dispiace, lascia indietro una sensazione di incompletezza.
Non era impossibile. Non era irrimediabile. È solo andata così.
Il problema, semmai, è il dopo. Quando il sipario cala, i titoli spariscono e le maglie tornano piegate nell’armadio.
Cosa resta? Resta un movimento che cerca ancora un’identità.
Ma lo sport, quello vero, si vede anche da come si sta in piedi quando si perde.
E oggi, malgrado tutto, queste ragazze ci sono rimaste in piedi.
Magari con gli occhi lucidi, magari senza più voce, ma con la dignità di chi ha fatto il possibile, anche se non è bastato.


