Siena (giovedì, 23 ottobre 2025) — A cinquantatré anni ho finalmente capito che non sono io quella strana: sono gli altri. Io sono una persona Asperger e ho l’ADHD, e anche i miei due figli lo sono, così almeno in casa ci capiamo — o meglio, ci travolgiamo a turno.
di Valeria Russo
A volte sembriamo tre tabelloni luminosi accesi in contemporanea, altre volte tre modem TIM che lampeggiano in cerca di segnale.
Ma almeno parliamo la stessa lingua, quella dei cervelli che non trovano mai il tasto “pausa”.
Fuori casa, invece, è tutta un’altra storia. È come sbarcare ogni mattina su un pianeta dove gli abitanti si chiamano neurotipici e passano metà del tempo a fare cose che non hanno senso e l’altra metà a dire che “va tutto bene”.
Li riconosci subito: sorridono anche quando sono tristi, dicono “dobbiamo vederci presto” con lo stesso tono con cui io dico “devo fare la colonscopia”, e si emozionano per il cambio dell’ora legale come se fosse un evento spirituale.
Io li guardo con affetto, un po’ come si guarda un criceto che fa jogging dentro una ruota.
Inutile, ma tenero.
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Lo small talk, questa piaga moderna
Ogni mattina mi preparo psicologicamente alla mia prima battaglia: lo small talk.
Loro lo chiamano “rompere il ghiaccio”. Io lo chiamo “tentativo di lobotomia sociale”.
Normodotato: “Ciao! Come va?”
Io: “In che senso? Fisicamente, esistenzialmente o su scala cosmologica?”
E loro ridono, convinti che stia facendo ironia. Io no, io ho solo risposto con precisione.
Il problema non è che non voglia parlare, è che per me le parole servono a dire qualcosa.
Loro invece le usano come deodorante, per coprire l’imbarazzo del silenzio.
Ma io il silenzio lo amo: è la mia spa mentale, il mio Netflix preferito, il mio miglior amico immaginario.
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L’arte di essere sbagliati nel modo giusto
Essere autistica adulta è come partecipare a un reality show che si chiama Indovina cosa si aspettano da te.
Spoiler: perderai, sempre.
Sorridi troppo? Sei falsa.
Non sorridi? Sei antipatica.
Rispondi in modo diretto? Sei aggressiva.
Usi una metafora? Sei strana.
Ti vesti comoda? Ti sei lasciata andare. Ti vesti bene? Ti vuoi far notare.
Alla fine ho smesso di decifrare il codice dei comportamenti sociali: è scritto in Comic Sans e cambia ogni giorno.
Preferisco restare nella mia versione originale, con sottotitoli automatici: “Contenuti estesi. Bug corretti. Patch emotiva 5.3.”
Il mio ADHD, poi, è come avere un regista di videoclip nella testa: cambia inquadratura ogni tre secondi, ma non finisce mai il montaggio.
Comincio a pagare la bolletta e mi ritrovo a studiare l’etologia delle lontre o la struttura dei fiocchi di neve.
Non mi distraggo: esploro. È una forma più poetica di caos.
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I figli, le copie con bug di fabbrica
Con due figli Asperger e ADHD, la vita è un’esperienza spirituale travestita da catastrofe domestica.
Uno perde il cellulare ogni sei ore, l’altro può fissare la stessa macchia sul muro per trenta minuti dicendo che “ha una vibrazione da civetta pensosa”.
E io cerco di mantenere la calma zen, mentre rispondo a una mail di lavoro, preparo la cena e impedisco al più piccolo di fare un esperimento di fisica quantistica col microonde.
Siamo caotici, sì, ma sinceri fino all’autolesionismo.
Se diciamo “sto bene”, vuol dire che stiamo veramente bene.
Se diciamo “non ce la faccio”, non cerchiamo conforto: cerchiamo una barella.
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La normalità, questo mito tossico
I normodotati, invece, sembrano avere un manuale segreto intitolato Come sembrare a posto anche quando non lo sei.
Devono essere sempre “presentabili”, “in forma”, “motivanti”. Io no: io sono più veritiera che motivante.
Se mi chiedi come sto, ti dico la verità anche se ti rovino l’aperitivo.
Mi affascina la loro liturgia sociale: si salutano con lo stesso entusiasmo dei concorrenti del Festivalbar 1998.
“Ciao cara! Che piacere vederti! Dobbiamo prenderci un caffè!”
Io li guardo, immobile, pensando: “Perché? E soprattutto… quando?”
Eppure c’è una certa poesia nella loro coreografia: sorrisi di circostanza, risate in differita, complimenti che evaporano in due secondi.
Sono come attori di una commedia leggera dove nessuno ricorda più la trama, ma tutti si ostinano ad andare in scena.
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La bellezza del disordine mentale
Per anni ho pensato che la mia mente fosse un magazzino Ikea dopo un terremoto.
Poi ho capito che non è disordine, è una forma di opulenza cognitiva.
Io non penso troppo, penso tutto.
L’ADHD è vivere in una costellazione che si riordina ogni cinque minuti.
È un caos luminoso: stancante, ma mai noioso.
E l’autismo non è un filtro rotto, è un’antenna troppo potente.
Sento tutto: le luci, gli odori, i pensieri altrui, i rumori del frigorifero del vicino.
I normodotati nuotano. Io surf. Ogni tanto mi schianto, ma l’oceano è splendido.
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Ironia, l’unico superpotere che regge
L’ironia è la mia cintura di sicurezza.
Quando il mondo mi sembra troppo rumoroso, lo prendo in giro. Quando mi sento fuori posto, mi metto comoda e mi guardo il caos come fosse una serie TV.
Ho smesso di voler sembrare normale: la normalità, alla fine, è solo una bugia collettiva con un buon ufficio stampa.
Io preferisco la verità, anche se non ha un filtro Instagram.
Noi “strani” non ci arrendiamo. Continuiamo a fare domande fuori luogo, a ridere nei momenti sbagliati, a vedere schemi dove gli altri vedono confusione.
Siamo gli ingegneri del paradosso, gli archeologi dell’assurdo, gli osservatori di un’umanità che si affanna a sembrare “giusta” dimenticando di essere viva.
E forse, alla fine, è proprio questo che ci salva:
mentre loro cercano di sembrare perfetti, noi impariamo — ogni giorno — l’arte di sopravvivere alla normalità.
Con una risata, e un po’ di sana, meravigliosa imperfezione.


